mercoledì 29 gennaio 2014

Elucubrazioni sulla punteggiatura e sulla sua storia.



Scrivere è divertente e rilassante ma richiede precisione non solo nella formazione dei periodi ma soprattutto nell’uso della punteggiatura.
Sebbene nel tempo si sia cercato di raccogliere un codice di norme per regolarla, l’interpuntura subisce interpretazioni
che proliferano in tagli, aggiunte e manipolazioni.
Quindi, cos’è la punteggiatura? E’ l’insieme di quei segni grafici che vengono disseminati con logica in uno scritto per legare tra di loro le frasi  in modo da renderlo chiaro e fruibile al lettore. La punteggiatura è necessaria per instaurare legami logici tra i periodi ma non solo, è importante perchè permette di riprodurre per iscritto le intonazioni e le intenzioni della voce e degli stati d’animo. Pensiamo al sostantivo vocativo, oltre alla posizione in principio di periodo, ha bisogno di una virgola e di un punto esclamativo a fine frase per esprimersi. Senza di essi diviene un semplice sostantivo atono. In un racconto di Anton Čechov troviamo scritto sul punto esclamativo: «Non basta che i segni d’interpunzione li poniate correttamente… non basta! Bisogna porli consapevolmente
L’oratoria è supportata da intonazione, sguardi, gesti per esprimere concetti e stati d’animo, il testo invece non può “orare” deve quindi comprendere le esigenze del lettore e rendersi autosufficiente. La punteggiatura coadiuva gli scripta in questo obbiettivo, essa non è universale né omogenea e le sue trasformazioni dipendono dai mutamenti della cognizione sociale. Primi esempi di segni usati come pause compaiono presso i Moabiti, popolazione semitica che abitava sulle rive del Mar Morto. Anche i Greci a tal fine usavano punti disposti in vario modo, mentre i Romani introdussero la virgola, virgula, piccola verga , la più versatile ed utilizzata di tutti i simboli. Fino al XII-XIII secolo, veniva prediletto la “scriptio continua” ovvero, un testo che avendo funzione pubblica mirava ad essere neutro e a lasciare l’interpretazione al lettore . Questo presupponeva però una prescienza da parte del lettore che avrebbe poi affidato all’oralità la gestione del sapere. In poche parole, il testo scritto serviva soprattutto come promemoria per chi avrebbe poi diffuso il sapere tramite favella. L’esercizio della punteggiatura utilizzava i precetti di retorica classica che suggeriva di dividere il testo in periodi di senso compiuto per evitare frasi troppo lunghe e dispersive.
Per prepararsi ad un discorso gli studenti erano invitati a consultare testi di orazioni ed opere teatrali, un metodo didattico questo che proseguirà per tutto il Medioevo.
Fra il IX ed il X secolo vengono aggiunte alcune positurae, segni di marcatura per riprendere il fiato che servivano anche per rendere chiaro il senso del testo, a questo proposito era sempre valevole  il principio “modus legendi in dividendo constat” ( la maniera di lettura sta nella divisione).
Con la diffusione della stampa avviene un cambiamento importante. Prima il testo veniva ricopiato in modo da preservarlo in caso di distruzione o perdita, in seguito la sua funzione passa da quella di supporto mnemonico per chi già ha scienza e coscienza di uno scritto, a strumento di informazione e curiosità per un pubblico non compatto ed anonimo, un pubblico che si aspetta sempre cose nuove e non più copiate. Da qui la necessità della punteggiatura di passare a procedure non più finalizzate all’udito ma alla vista. Qualsiasi tipo di lettore dotto o no, deve essere in grado di comprendere un testo ed il suo senso, per questo nel tempo si viene a creare un codice che lungi dall’essere certo garantisce però una base omogenea.
Nel tempo la punteggiatura si è evoluta, prendiamo per esempio il punto esclamativo; esso deriva dal latino “io” che significa evviva e che veniva posto alla fine della frase per sottolineare sorpresa e gioia. Successivamente la ” i” si spostò  sopra la “o” che diventò poi un punto e “i” diventò la stanghetta che usiamo tutt’oggi.Anche il punto interrogativo ebbe una sorte simile, la “q” e la “o” di “questio” che venivano poste a fine frase interrogativa, vennero sovrapposte, la “q” fu messa sopra la”o”, questi divenne un punto mentre la “q” si trasformò nella odierna parte superiore del punto interrogativo.
Numerose dispute si sono svolte nel tempo su questo ring letterario, la tendenza è stata quella di uniformare al massimo l’uso della punteggiatura, per alcuni autori è addirittura un segno stilistico non utilizzarla. Francesco Flora, critico letterario e scrittore italiano diceva: «I moderni tendono con ragione a diradare i troppi segni di interpunzione. Ma sono anche capaci di abolirli affatto, talvolta per eccesso di raffinatezza, talvolta per manifesta ignoranza»
Il Carducci rappresenta forse il letterato principe della misura perché né eccede e né è troppo avaro nei segni di interpuntura.
Il Leopardi su questo argomento spiega nel 1820 a Pietro Giordani: "Io per me, sapendo che la chiarezza è il primo debito dello scrittore, non ho mai lodata l'avarizia de' segni, e vedo che spesse volte una sola virgola ben messa, dà luce a tutt'un periodo. Oltre che il tedio e la stanchezza del povero lettore che si sfiata a ogni pagina, quando anche non penasse a capire, nuoce ai più begli effetti di qualunque scrittura".
Un testo per vivere necessita di parole che senza punteggiatura sono come un gregge senza cane pastore, si disperdono.
Un singolo segno cambia il senso e la struttura della frase, quanta tribolazione c’è nel leggere un periodo in cui sono stati apposti segni in modo frettoloso ed errato, la si legge e rilegge per capirne il senso.
E’ come scendere dal treno e non trovare il predellino per appoggiare il piede, tal fatto causa scivoloni dolorosi verso la credibilità di un buono scrittore.

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